La ricerca e l’orgoglio delle radici
Traduzione inglese delle voci a cura di PAMELA VENTURA
Lando Siliquini
Definire lingua picena un parlato centro italico marginalizzato dagli studiosi e snobbato dai circoli culturali fino a essere privato della stessa identità e dignità dialettale, può apparire assurdo o inutilmente provocatorio.
Prima di addentrarsi nella discussione vanno pertanto chiariti alcuni equivoci di fondo talora alimentati dagli stessi cultori della materia.
Va innanzitutto evidenziato che il modo di parlare nell’Italia mediana, escludendo la Toscana, ha un fondo linguistico comune che non viene inficiato dalle varianti locali, mostrando un medesimo sostrato. Esso si pone in netta distinzione tanto con le parlate settentrionali quanto con quelle meridionali; e le barriere linguistiche rappresentate dal Tevere a nord-ovest, dai fiumi Potenza ed Esino a nord e dall’Aso a sud sono le più nette e percepibili d’Italia o forse d’Europa.
Un secondo luogo comune da sfatare è la convinzione, figlia di un certo nichilismo marchigiano, che il vernacolo fermano maceratese sia il semplice riflesso di ritorno del parlato medio tirrenico.
Ancora più radicata è poi la falsa conclusione che i fenomeni lessicali, fonetici, morfologici e semantici diffusi in questa area rappresentino un deterioramento caricaturale della lingua nazionale.
Come ingiustificata è la definizione di “dialetto della /u/ finale”, assai più calzante per il ligure, il calabrese, il salentino, il siciliano, il sardo.
Non si vuole invece neppure immaginare che si possa ancora confondere il toponimo “piceno” con “ascolano”.
Per argomentare queste considerazioni di partenza, che si scontrano con un sentire diffuso, è possibile e necessario portare una lunga serie di dati e ciò rappresenta lo scopo di questa pubblicazione.
Dal prosieguo della presentazione si potrà tuttavia estrarre elementi di riflessione utili a un primo chiarimento.
Detto ciò, occorre precisare che cosa si intenda per lingua e quali siano gli aspetti distintivi rispetto a dialetti, vernacoli, gerghi, inflessioni, cadenze, e così via.
Una lingua, per definirsi tale, deve avere:
1. una attestazione “storica” delle sue radici etimologiche, ossia documenti scritti risalenti quanto più possibile indietro nel tempo;
2. una delimitazione etnica e geografica, meglio detta “corografica”, in cui il territorio dei parlanti coincida con quello storicamente occupato dalla stirpe di riferimento;
3. uno sviluppo dei fenomeni linguistici continuativo, lineare e coerente con le suddette componenti.
La lingua picena, che ci ostiniamo a chiamare “dialetto”, risponde pienamente a questi requisiti.
Ma, si badi bene, non si parla qui di quella commistione brutta e insensata (indotta dalla scuola nel tentativo di estirpare gli idiomi regionali) che connota l’attuale modo di parlare nei nostri territori facendo identificare la marchigianità con ridicoli stereotipi.
La “lingua picena moderna” ha una grande dignità, ma purtroppo sta scomparendo. Per fortuna conserviamo le opere scritte di artisti che fino a un recente passato hanno saputo essere orgogliosi delle proprie radici e sono oggi un sicuro riferimento per gli scrittori nostri contemporanei. Questi ultimi sanno essere veri bilingue, con sensibilità e preparazione, restituendo al parlato fermano maceratese la carica storica e antropologica che le è propria.
Si potrebbe obiettare che con il termine di “lingua” si intendono delle convenzioni che uniformino il modo di parlare su una vasta area, per di più consacrate da opere letterarie e sancite da testi pubblici.
Anche questi aspetti sarebbero ben argomentabili per la lingua picena, ma è soprattutto vero che sono le regole a seguire la lingua e non viceversa. Poiché, laddove la lingua perde il legame con il suo popolo perde anche la capacità di esprimerne la struttura, diventa solo un linguaggio macchina.
ISBN 88-7969-454-5
€ 12,00
Ft. 164×234 mm
2020, pp. 210, copertina in brossura